mercoledì 25 marzo 2020

CRISI DA VIRUS E AMBIENTE ALPINO




In un post precendente avevo trattato la questione dell' attuale grave crisi da virus dal punto di osservazione della cittadina turistica per eccellenza del Lago Maggiore e avevo cercato di intravvedere una via di uscita alternativa che prendesse proprio insegnamento da questi giorni vissuti in un clima da stato di guerra. Poiché la crisi si prolunga ed anche le attività della nostra associazione ne subiscono gli effetti, mi pare che ci sia l'opportunità per altre riflessioni che muovono sempre dalla situazione sventurata in cui siamo capitati e che, questa volta, prendano in considerazione il destino dei territori alpini post crisi.

Anche su queste pagine, più volte, è stato seguito il dibattito su uno dei progetti più discussi di turismo industriale che dovrebbe prendere avvio, ora mi viene da scrivere avrebbe dovuto, in quella fascia delle alpi Lepontine che pareva invece dedicata alla conservazione più che alla infrastrutturazione per dirla in termini molto semplificati, ma credo efficaci.
Al fondo della contesa ci stava sempre quella visione contrapposta tra ambientalisti/conservatori e investitori/progressisti, contesa argomentata in genere con luoghi comuni e che vedeva dunque e generalmente, da un lato i rappresentanti delle comunità locali alleati al partito dei "progressisti", i propugnatori dello sviluppo economico e dall' altro gli ambientalisti, raffigurati da salotto, e qualcuno pure potrebbe magari esserlo, che nulla avrebbero da perdere, accusati di voler ridurre la montagna a riserva indiana.
Vorrei invece provare a sostenere, aiutato in questo dall'attuale tragico momento di acuta crisi globale, che il tema non è ideologico, ma invece é economico, cioè dello sviluppo, non del sottosviluppo, ma trattato dalla parte delle popolazioni che vivono in quei territori, territori che sino a ieri parevano diventati l’oggetto di un contendere tra chi si diceva li avrebbe voluti ibridare in un immobilismo secolare e chi invece farne oggetto di un progetto economico/industriale che ne avrebbe garantito il sicuro successo.
Come vedete mi vedo ormai costretto ad usare il passato, perché dopo questi giorni, nulla sarà più come prima.
Comunque il modello di sviluppo industriale ed economico di cui si parlava sarebbe stato un modello di importazione, costruito al di fuori non solo dal confronto con la cultura alpina entro la quale avrebbe dovuto radicarsi, ma anche dal confronto con gli stessi rappresentanti delle comunità che più che discutere, sembravano ansiosi di approvare.
Mancavano quindi due elementi: il coinvolgimento culturale delle popolazione da un lato, e il progetto politico dei rappresentanti delle stesse popolazioni dall’altro.
Mancando questi elementi ci si affidava a progetti di importazione, a pacchetti preconfezionati, più o meno bene, che avrebbero dovuto, senza fatica, e questo è importante, provvedere ad ogni necessità, consegnando chiavi in mano un futuro radioso e prospero per tutti e se questo così fosse ci saremmo assoggettati molto volentieri alla lunga cordata di volonterosi che si era accodata .
Ma c'è anche altro; lo spopolamento alpino non è un tema di oggi, è un fatto antico, stratificato, figlio di migrazioni, oggi è forse figlio del solo crollo della natalità e in questo la sua curva è diventa molto simile a quella generale.
La fragilità delle risorse umane che vivono la montagna e forse una delle cause, se non la prima della persistente marginalità di quei territori. Essa ha seguito la caduta demografica, è la figlia dello spopolamento alpino che ha drenato verso il basso, energie, economie, risorse umane produttive e culturali, desertificando territori che i secoli del passato hanno attraversato con alterne fortune; da momenti di prosperità a momenti di fame, ma che sul piano della coesione erano riusciti sempre a vivere.
Se questo è vero, il primo investimento che si dovrebbe pensare dovrebbe essere non tanto quello infrastrutturale, ma della ricostruzione del capitale umano, la riattivazione di comunità intraprendenti, la costruzione condivisa di un progetto culturale prima ancora che industriale che sappia ricondurre le comunità entro una nuova economia, partendo dalle valenze del territorio, coniugate in forme moderne, collegate ad una rete senza confini territoriali e nazionali, riappropriate alle vecchie e nuove professionalità, rivitalizzate nei segni materiali delle colonizzazioni antiche e che una domanda esterna in ascesa, passata la crisi, sarà di nuovo pronta a cogliere, apprezzare e premiare.
Che c’entra dunque quel progetto di sviluppo turistico/industriale, di cui tanto si era parlato, con tutto questo ? Non c’entra nulla. Lascerebbe le comunità vere al margine di quell’ondata di risorse da usare, per lo più spendibili altrove, che una volta investite, drenerebbero gli eventuali utili verso altre destinazioni, probabilmente finanziarie.
Il popolo alpino in tutto questo non ci sarebbe o ci sarebbe poco, affatto coinvolto dal processo di investimento, una sorta di spettatore non partecipe; altri più pronti, magari più intraprendenti, più attrezzati ne prenderebbero il posto.
Intanto la risorsa più importante di cui dispone, ossia l'unicità dei territori, verrebbe impoverita, depotenziata rispetto alla sua capacità attrattiva all’interno di un mercato in crescita, praticamente sterminato, connesso in rete, dove il bacino di utenza non ha confini, passata la crisi.
La bontà industriale del progetto della San Domenico Sky potrebbe essere anche perfetta; in giro c’é ne sono tanti, più o meno funzionanti, ma non è il modello economico che può far rinascere il territorio in termini civili e culturali ed anche economici specie dopo la prova durissima che l'intera economia sta subendo.
In quel progetto, il soggetto colpevolmente assente, spiace doverlo ricordare, è il soggetto di governo che si appropria di un progetto altrui, neppure si cimenta a costruirne uno proprio. Esso dimentica il mandato ottenuto, rinuncia a costruire un modello che insieme all’economia ricostruisca coesione e cultura. Era già il grande assente mentre si aprestava a diffondere un messaggio di preavviso ad evitare turbamenti impropri rispetto ad un percorso già, altrove, deciso. Ora dovrebbe provare a farsi vivo, ne dubito.
Eppure, polemiche e contrapposizioni ideologiche a parte, gli scenari alternativi e possibili sono accattivanti, anzi già lo erano nel tempo pre crisi; per nulla utopici, ma realisti e realizzabili; certo non viaggerebbero con la velocità di un progetto industriale, hanno il passo alpino, richiedono un approccio attento, lento, continuo, risorse, ma perché non metterle anche qui se sono così tante, probabilmente ormai lo erano, disponibili e vogliose di essere spese ?
Sarebbe quindi compito dei governi costruire il modello; farne un’analisi, indicare gli obietti, disegnare i percorsi, quantificare le risorse, valutare i ritorni, calcolarne i tempi, coinvolgere la loro gente, perché per questa sono chiamati, non per altri.
Il contenitore esiste; la crisi non lo travolgerà, frutto della creazione o dell’evoluzione, a seconda delle opinioni, esso è gratuito e disponibile. La sua non fungibilità dovrebbe garantirlo, preservarne il marchio di origine, renderlo inalienabile, immodificabile. Ha un valore e come tutte le cose di valore se si desiderano averle bisognerebbe almeno pagarle, invece sembrava potesse essere messo in offerta gratuita, ma qui la comunità avrebbe dovuto rivoltarsi, almeno chiederne un prezzo, non assecondarlo.
Era tempo sprecato; non c’era tempo, occorreva decidere ciò che era già stato, altrove, deciso.
Se nel pre crisi si sarebbe dovuto costruire, nel tempo del post crisi si dovrà ricostruire, dove il prefisso non è tanto o non solo il segno di una materialità diroccata, di una archeologia alpina purtroppo troppo diffusa, ma di una comunità indebolita; bisognerà guardare alla nuova domanda di turismo, offrirle una risposta ricettiva ampia, orizzontale; coniugare stretto il recupero materiale con il suo uso economico, diffuso, equo, solidale, democratico; bisognerà ridare il fiato ai borghi spopolati, offrirli ad un turismo che non assimila e ingloba, ma che cerca e apprezza; bisognerà insegnare le nuove professioni o quelle meno nuove da innovare; disseminare i servizi al turismo; offrire le nuove tecnologie, rifondare le culture passate, i lavori antichi modernizzati, isentimenti ormai spenti; le scuole da riaprire, per tanti, non per i pochi rimasti; impossessare i giovani di lingue, mandarli a viaggiare per sempre rivederli tornare.
Non una riserva indiana, ma una comunità accogliente, preparata, moderna, cui la globalizzazione non sottrae, offre, che non tema le crisi, resiliente. Un modello dove anche le innovazioni forti ci possono stare, anzi ci starebbero; la mobilità motorizzata sottratta a beneficio dell’ arroccamento a fune, che sposti a fondo valle i luoghi dello scambio auto/impianto; che insieme rivitalizzi quei centri di scambio ridandogli funzione e scopo. Poi, più su più nulla, l’accesso come un’avventura ignota, l’oggetto dell’offerta che viaggia lungo la rete mondiale; il core business che attrae perché non contaminato; la creazione o l’evoluzione, la scelta è sempre disponibile, che genera valore, restituendo benessere, dignità e consapevolezza a chi è rimasto e a chi ritornerà.

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