sabato 24 aprile 2021

STRESA: UN PONTE PER DIVIDERE



Il progetto del ponte sull’acqua continua ad essere in primo piano sulle pagine di qualche testata locale, tanto che da effimero ora sembra diventare qualche cosa destinata, burrasche permettendo, a durate nel tempo. Per rendere il progetto più accattivante si dice che costerebbe meno di un milione, mentre si dovrebbe dire che costerebbe quasi un milione, salvo “imprevedibili imprevisti”. Certo è che se poi andrebbe a finire come i tanti porti galleggianti realizzati, ma poi affondati o quelli non galleggianti, ma non funzionanti, il costo finale sarebbe ben maggiore, ma questo è un particolare di scarso peso che non viene ricordato, mentre invece si esalta il grande valore moltiplicatore di business che l’opera produrrebbe. Nessuna considerazione poi sul fatto che l’ideatore della trovata sarebbe anche uno dei beneficiari dell’incremento di business, ma che, sino ad oggi, non ha dichiarato essere disposto a metterci manco un euro per realizzare la sua idea, tanto da non rispettare neppure il vecchio adagio: metà parere e metà soldi. No, il rischio di vedere l’opera diventare un rottame al sopraggiungere della prima grande tempesta dopo o durante la sua inaugurazione, non sembra proprio che l’ideatore voglia provarlo e i soldi pubblici sono gli unici che in queste trovate sembrano quelli che debbono essere messi a rischio e pericolo (porti docent). Che cosa poi c’entri questa trovata di ingenio con il recovery fund, questa è un’altra questione sulla quale meriterebbe che La Stampa dedicasse una qualche attenzione, maggiore di quella sino a ora prestata. Far passare che questo progetto sia il futuro per il turismo del lago: magari green, magari resiliente, come si usa dire sempre più a sproposito, magari utile per la coesione sociale o altro ancora, a noi non pare. Quello che viene proposto è semplicemente business, cioè il tentativo di puntare, a dispetto della qualità dei beni di paesaggio che sarebbero da tutelare anziché snaturare, su di un’attrattiva da pompare con una più che adeguata, anzi esagerata, campagna pubblicitaria per accrescere a dis-misura i picchi rappresentati dai numeri delle affluenze turistiche che, proprio perché insostenibili su territori estremamente ristretti e vulnerabili, li condannerebbero a diventare un fenomeno da baraccone, niente altro. Siamo lontani mille e miglia da quello che l’Europa chiede e vuole venga finanziato con i soldi pubblici, ma siamo lontani mille e miglia da quello che dovremmo immaginarci come un nuovo turismo che non snaturi ciò che è l’oggetto dei desideri. Spiace che certi progetti siano il frutto di elaborazioni locali; certo non tutti sono nati su quelle isole, non tutti hanno visto decine e decine di pittori posare il cavalletto e ritrarre quell’angolo di “ piccolo mondo antico”. Ci sarà stata una ragione che ha indotto molti a farlo. Quantomeno quel mondo rimarrà nelle tante tele prodotte. Eppure, questo “quadro” di paesaggio che ha avuto la forza di attrarre tanti artisti che l’hanno immortalato e che, altresì, ha attirato molti milioni di turisti, da quando l’ economia del turismo è diventata, in assoluto, la prima risorsa, lo si vorrebbe cambiare in nome del business. Il business: una parola magica che sembra abbia la forza di trasformare in oro tutto ciò che tocca e senza troppo riguardo al passato e neppure al presente. Al suo evocarlo tutti sembrano ammaliati, incapaci di reagire con la razionalità e l’empatia che di fronte a una proposta inedita e per certi versi inattesa ci si dovrebbe porre. Temo che di questa storia, che sarà molto divisiva, se ne parlerà a lungo: gli uni per sostenerla, gli altri per contrastarla. Che io sia di parte e, in questa occasione, due volte di parte, non credo sia un mistero, e mi sforzerò di far prevalere, insieme con l’Associazione che conduco, i motivi della ragione e dell’empatia per contrastare questo cieco business che avanza, nonostante, o grazie alla pandemia. Per ora vorrei terminare ricordando un artista che era di quelle terre di acqua e che ha lasciato le sue tormentate opere esposte nella casa museo isolana. Lì, se vi capiterà di passare, troverete le parole per comprendere le ragioni empatiche e profonde del no.

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