venerdì 20 ottobre 2017

ARCHEOLOGIA CONTEMPORANEA







Il Convegno sulla archeologia industriale, come programmato, si è svolto oggi, 20 ottobre, a Torino. Buona la partecipazione di pubblico; oltre settanta persone hanno riempito la sala dell'Archivio di Stato di P.za Mollino dove otto interventi tenuti da architetti, docenti universitari, rappresentati di Italia Nostra e con la partecipazione della Soprintendenza hanno portato testimonianze diverse su di una questione che la crisi industriale di questi ultimi anni ha soltanto acuito e non risolto. La Sezione provinciale del VCO ha presentato due testimonianze di archeologia contemporanea; la Bialetti di Crusinallo e la Girmi di Cireggio. Impedito per intervenuti imprevisti il relatore ufficiale, Architetto Ripamonti, il Presidente della Sezione ha supplito presentando, in sequenza, tre contributi corredati da video e foto e che qui pubblichiamo per chi ne avesse interesse.

LA BIALETTI, UN'INDUSTRIA CON I BAFFI

L’archeologia contemporanea, un ossimoro, ma che, paradossalmente, diventa lo stimolo per una riflessione anziché essere accantonato come una boutade. 
Succede nel caso dei due esempi che abbiamo scelto di presentare nel convegno di oggi. 
Due realtà, o meglio ex realtà industriali, cresciute, all’inizio della seconda parte del secolo passato, dentro il distretto industriale del Cusio che, in quegli anni, aveva fatto delle produzioni del casalingo la sua fortuna. 
Il primo esempio, anche in ordine cronologico, si affermava per la genialità di un imprenditore estroverso, che in pochi anni, sull’onda dello sviluppo economico del dopoguerra e della crescita della curva demografica, riusciva con un prodotto molto semplice, ma geniale appunto, ad entrare, è il caso di dirlo, dentro pressoché tutte le famiglie italiane, utilizzando, con intuizione, un messaggio pubblicitario accattivante, l’omino coi baffi, che i primi “Caroselli” portavano sul tavolo di quelle famiglie che ne sarebbero diventate il primo e più rilevante mercato.
Il tutto si realizzava nello stabilimento, firmato dall'architetto Caneva, sorto all’inizio degli anni 50 a Crusinallo di Omegna, uno stabilimento moderno, anzi modernissimo, dalle linee razionaliste, assai diverso, anzi irriconoscibile, salvo eccezioni, se confrontato con i modelli precedenti, ma anche successivi della fabbrica industriale. 
Una fabbrica orizzontale/verticale, concepita su più livelli dunque, dove sarebbe stato difficile cogliere la differenza tra l’ala produttiva e quella amministrativa, financo quella dirigenziale. 
Il tutto era ed è fuso in un unico modello architettonico, dove la luce naturale diventa un elemento dominante, gli spazi sono open space e forse l’unica traccia ottocentesca, l’impronta della fabbrica governata da un padrone, è l’ufficio padronale appunto messo in una posizione assolutamente dominate rispetto l’intera ala dedicata all’amministrazione dell’azienda.
Uno stabilimento “modello” si sarebbe stati tentati di così definire, dove il “modello” si rispecchiava poi anche in quello di una gestione attenta al suo perfetto mantenimento, quasi un vizio maniacale che vedeva impegnata, in permanenza, una squadra di servizio per la pulizia delle superfici vetrate, dove i macchinari venivano riverniciati a nuovo una volta ogni anno, dove le scrivanie impiegatizie avevano il piano di cristallo trasparente, con obbligo di essere lasciate in perfetto ordine al termine del turno, dove l'archivio ammnistrativo era un altro elemento di assoluta innovazione, dove un'impianto meccanografico, quasi incessantemente in moto, occupava l'intero piano dell'ala degli uffici, dove la filodiffusione si diffondeva negli ambienti della produzione e dove le cento docce a disposizione delle maestranze erano forse l'illusione di eliminare, al di qua dei cancelli, le divisioni che si riproducevano al di là dei cancelli della fabbrica.
Una fabbrica moderna, pulita e ordinata, dove una severa disciplina del lavoro si fondeva con lo stesso ordine materiale delle cose, anzi ne era un elemento essenziale, ma che, paradossalmente, pur nel non annullato conflitto, conferira alle maestranze il senso dell'appartenza ad una aristocrazia che le differenziava, certamente sul piano salariale, rispetto al lavoro presso altri stabilimenti. 
Sotto il profilo economico è stata un' esperienza felice e per molti anni fortunata, arrivando a produrre sino a 18.000 pezzi ogni giorno, una vera produzione di massa che si riversò, per ben oltre due decenni, sui tavoli, principalmente, ma non solo, di pressoché tutte le famiglie italiane.
La sua fortuna era probabilmente anche però il suo limite; il mercato di un prodotto quasi indistruttibile non poteva essere infinito e i mercati laddove avrebbe potuto espandersi erano anche quelli che seppero velocemente impadronirsi del “ brevetto” ; la curva demografica interna intanto cominciava a fare sentire gli effetti della decrescita, insieme a quella del numero delle nuove famiglie; il mercato si apriva, ma diventava più competitivo e più difficile. 
L’omino coi baffi aveva fatto il suo tempo, lo sapeva benissimo, l’impresa famigliare non aveva eredi capaci di raccogliere l’eredità ancorché in vita il fondatore; passò la mano e altri continuarono per alcuni anni la produzione, ma spostandola altrove, prima vicino, poi più lontano e ora la traccia si perde anche se il marchio ancora esiste e da qualche parte del mondo il prodotto ancora esce.
Lo stabilimento di vetro, l’icona di un tempo contemporaneo del panorama industriale locale, faticava e fatica a ritrovare una sua adeguata funzione. Smontate le linee produttive, i padiglioni, già animati dal lavoro operaio, sono diventati spazi vuoti attraversati solo dalla luce; frazionati e smembrati altri settori sono ora occupati da improponibili pizzerie, da unità commerciali o da delocalizzati uffici e servizi; ma lo stabilimento rimane pressoché intatto nelle sue linee architettoniche essenziali, nella sua singolarità all'interno di un panorama industriale ben diverso. 
Sulla sua facciata svetta ancora, mai rimosso, il nome della fabbrica che non c’è più. 
Che poi sia stato lasciato come un ricordo del passato o una speranza per il futuro, questo non ve lo possiamo ancora raccontare.

LA GIR-MI UN ACRONIMO FORTUNATO

Erede di una tradizione industriale già consolidata, quella della Società Cooperativa Torneria la Subalpina nata nel 1919 in Valle Strona, la fabbrica negli anni quaranta si trasferisce a Omegna, ma soltanto nel 1963 trasforma il suo nome in quello di "Girmi - la Subalpina" e solo nel 1971 in "Girmi" spa; l'acronimo di gira e miscela.
La storia dello stabilimento fisico che vi raccontiamo si intreccia però con quella del figlio del fondatore della vicenda industriale.
Carlo Caldi, che si sottoscrive con il soprannome di Carlito per le origini Argentine della madre, galeotto il viaggio di nozze negli Stati Uniti nel 1947, subisce la fascinazione degli elettrodomestici che in quel paese in quell'epoca erano già diffusi e da lì a proporli sul mercato italiano il passo non sarà immediato, ma comunque prenderà avvio e i primi prodotti saranno il macinino e il frullatore; la Gir-mi, appunto.
La plastica è il nuovo materiale verso il quale le produzioni si orientano. La sua novità, unità alla leggerezza ed alla possibilità di ridurre i costi e il prezzo finale del prodotto sono determinanti per la sua scelta.
Tale scelta, ancorchè inizialmente non garantisse una qualità perfetta del prodotto, grazie al basso prezzo è invece decisiva per il successo delle vendite, determinado il salto dimensionale dell'azienda che passa dai 50 addetti degli anni cinquanta ai 400 degli anni settanta.
Il successo aziendale impone la ricerca di nuovi spazi produtti e Carlo Caldi acquista un 'area di 60.000 mq. posta sulla collina di Cireggio, frazione di Omegna, area occupata dalla villa " Pestolazzi" con annesso un grande parco.
L'ambito non è forse quello che ai più verrebbe pensare da destinare ad un sito produttivo, affacciato come è, in posizione dominante, verso il lago, ma nel 1963 viene costruito il nuovo stabilimento, un immenso spazio posto su di un unico livello che occupa una superficie di circa 7.500 mq. , totalmente libero da colonne e pilastri, con una copertura formata da una struttura reticolare a elementi prefabbricati in lamiera piegata che permettono di coprire una luce, senza sostegni, fino a 120*50 ml.
Anche in questa realizzazione non è estranea la contaminazione che già per i prodotti era venuta dagli Stati Uniti. L'intera copertura del capannone è infatti acquistata in quel paese, proveniendo dallo smantellamento di un supermercato, e viene importata non senza dispendio di costi. 
Ne nasce, per quei tempi, un innovativo edificio che segnala la sua presenza sul territorio anche grazie alla colorazione rossa che lo contraddistingue.
Al suo interno la produzione viene organizzata a "ciclo orizzontale", la materia entra al piano ed esce finita allo stesso piano, attraverso un' organizzazione dello spazio articolata a " ferro di cavallo" .
Un magazzino multipiano, tra i primi automatizzati in Europa, costituisce l'impianto logistico; le sezioni tecnica e programmazione sono collocati in uno spazio vetrato sopralzato che da direttamente sopra la fabbrica; gli uffici amministrativi sono invece sistemati all'interno della villa Pestolazzi e un sistema di posta pneumatica li connette ai reparti produttivi. Intorno rimane il grande parco originario, animato da daini e caprioli. 
E' dunque all'interno di questo grande spazio produttivo che nascono e prendono forma i brevetti, a tutela della loro ideazione. Una serie di produzioni e di parti meccaniche, che nel 1998 raggiunge il numero di 18 è sottoposta a brevetto e si diffonde nel mercato sull'onda dell'economia dei consumi e grazie all'accattivante attrattiva che una nuova categoria di artisti rivolge ai prodotti industriali.
Il rapporto della Girmi con il designer è fondamentale. Lo stesso Carlo Mazzeri che firma i disegni del nuovo stabilimento svolge un'esperienza in tale senso e collabora con l'azienda per la ridisegnazione di alcuni prodotti quali: l'asciuga capelli, i coltelli elettrici, il frullinio a immesione ecc..
Collaborazione saltuarie, ma eccelenti si annoverano durante i diversi decenni di vita dell'azienda: da Marco Zanuso alla fine degli anni 50, a Michele De Lucchi negli anni 80, a Pinifarina nel 90.
Più assidua la collaborazione di Ludovico Mattioli che sottoscrive un contratto a partire dal 1978 e che continua sino all'entrata di Luca Meda nella Girmi all'inizio degli anni 80.
Quest'ultima collaborazione non si limita al campo del designer di prodotto, ma si estende alla progettazione dell'immagine dell'azienda, alla costruzione della sua identità attraverso la cura della comunicazione per il suo riconoscimento nel rapporto con il mercato.
La collaborazione con Michele De Lucchi nel 1979 consente all'azienda di esporre al Beaubourg una serie di elettrodomestici prodotti a scopo promozionale. 
Le ultime collaborazioni sono poi quelle degli anni immediatamente precedenti la chiusura avvenuta nel 2004 e i rapporti sono quelli con lo studio Ugolini, con Nico Smench di origine Olandese e con Vinod Gangotra di origene Indiana.
L'azienda non importa dagli Stati Uniti soltanto lo stabilimemto di Cireggio, importa anche un modello di casalinga dove i piccoli elettrodomestici sono rappresentati come l'ausilio essenziale nelle faccende domestiche. Essi sono altresì associati, simbolicamente, ad un'alimetazione sana dove il frullatore diventa la macchina della produzione delle vitamine da estrarre da frutta e verdure.
Il Frullo del 1954, il Mokaro del 1956, il Carosello del 1958, il Frulletto del 1959, il Cremespress del 1960, il Gastronomo sempre del 60, la caffetiera elettrica Espresso ancora del 1960, il macinacaffè Mc14 major sempre degli stessi anni 60.
Nascono a ritmo veloce e incessante tutti questi "giocattoli" che entrano nell'arredamento delle cucine italiane che sempre più diventano una sorta di piccole fabbriche semiautomatizzate per la trasformazione di cibi e bevande.
Il designer in questo processo fa la sua parte, fondamentale, coniugando l'estetica con la funzionalità e con l'utilità e il mercato per molti anni premia, spingendo verso nuovi prodotti, nuove forme e nuove funzionalità, anche attraverso restyling successivi. La Gelatiera GL12, il tritatutto TR50, il frullatore FR52, la centrifuga CE11 e il Naturista del 1981 si inseriscono nel continuum della tendenza " salutista" che vede il Naturista compatto del 1987.
La serie delle produzioni è dunque molto lunga, ma la vicenda industriale conosce una curva, forse inesorabile, e Girmi spa, azienda sostanzialmente a base famigliare non ha al suo interno le risorse umane necessarie alla sua stessa successione; i modelli di consumo, ma anche di vita cambiano, le casalinghe abbattono il loro tempo di permanenza media tra i fornelli di cucina da circa due ore di un tempo ai 15 minuti giornalieri attuali, i "giocattoli" non attirano più, la globalizzazione ormai è arrivata, la finanza attrae di più le risorse che non la produzione, l'azienda passa di mano, una, due o forse anche più volte, il marchio lo acquista prima la Bialetti, poi altri, poi altri ancora, ma dove sia ora difficile dirlo con certezza, nel 2004 chiude e va in liquidazione fallimentare, ma nessuno si è ancora presentato alle aste.
Il grande stabilimento venuto dagli Stati Uniti, montato pezzo su pezzo sulla collina di Cireggio chiude i battenti e non riaprirà più; il silenzio che prima era rotto dalla musica che, durante i turni produttivi, si diffondeva attraverso gli amplificatori posti al suo esterno, è tornato.
Il grande parco dei daini e dei caprioli, vigoroso e prepotente, quasi a voler mostrare e dimostrare una supremazia della natura, è avanzato nella maniera più libera e disordinata possibile, impossessandosi della fabbrica. La sovrasta, la chiude nell'intreccio della vegetazione come a volerla nascondere, persino seppellire. Il fabbricato esteso più di un intero campo di calcio non esiste più alla vista umana. La collina verso il lago esplode di colori che l'autunno estivo di questo anno svela, ma della fabbrica quasi neppure un'ombra.
E forse questo è il suo destino; venuto da un paese lontano, quasi un oggetto ancora sconosciuto, collocato in un luogo che nulla aveva di sito industriale, abbandonato dall'uomo è preda di una natura che se ne impossessa, lo smonta, lo rottama, lo distrugge pezzo a pezzo e tempo un secolo non ci sarà più. 


LA DEINDUSTRIALIZZAZIONE IN BREVE 

Il tema della archeologia industriale, unito a quello forse più attuale della rottamazione o che altro si voglia dire e definire, è un tema che tocca da decenni il panorama dell’intera Provincia del Verbano . 
La storia industriale degli anni che hanno attraversato la fine del secolo passato e l’inizio di quello attuale è una storia di chiusure, smantellamenti, dismissioni o delocalizzazioni che, a seconda dell’epoca e della crisi industriale del periodo, ha lasciato sul terreno realtà note, altre meno note, alcune storiche e non o più semplicemente e più recentemente uno stilicidio di unità produttive minori che oggi mostrano il cartello vendesi o affittasi.
Ha iniziato la grande industria, quella storicamente insediata, l'industria siderurgica in primis; La Pietra di Omegna, ex Cobianchi,con il suo altoforno messo quasi in mezzo alla città, ora al suo posto c'é un'area commerciale, un'altra scolastica, una residenziale e il "Forum", il centro polifunzionale pubblico dedicato alla storia dell'industria locale, segno che quando non c'è più l'industria si passa a farne la commemorazione; poi è venuta la Ceretti di Villadossola, altra industria siderurgica e al suo posto è sorto il teatro, "La Fabbrica", e così se ne evoca almeno il nome; segue anni dopo la Sisma, una fabbrica energivora in termini di occupazione, sempre di Villadossola; mi pare che sia rimasto uno spazio ancora vuoto; ma diversi anni prima aveva terminato una lunghissima agonia chimica la Montefibre di Verbania, in parte ora Esselunga e, in parte, sino al 2010, una nuova industria, ancora chimica, "l'acetati" con una scia di "veleni" che si è portata dietro anche dopo la sua chiusura e che il nome già anticipava; si aggiunge all'elenco della morte del lavoro il cappellificio Panizza di Ghiffa, trasformato in una pregiata residenza sul lago e la Cartiera di Verbania, ora uno spazio polifrazionato e spezzettato per tante molteplici piccole e piccolissime aziende.
A seguire viene poi la crisi, a cavallo dei due secoli, quella dei distretti industriali, che nella Provincia colpisce il casaligo e che, pezzo dopo mezzo, smonta nell'arco di un quindicennio, una buona parte dell'apparata produttivo e occupazionale che negli anni del boom economico aveva felicemente edificato; la Bialetti e la Girmi sono dunque i grandi simboli di questo smantellamento, ma non sono soli. 
La rottamazione però non si ferma ancora e la crisi economica e industriale più profonda che la storia contemporanea ha conosciuto e che per molti versi ancora conosce, smantella un'altra miriade di piccole e meno note aziende.
Ne fa le spese anche una più nota, la Legatoria del Toce della De Agostini e si disertificano intere aree artigianali e industriali che erano, poco prima, cresciute sull'onda di piani attuativi produttivi che i Comuni sembrava avessero fatto a gara a realizzare.
Qualche riconversione commerciale; diversi abbattimenti, una qualche nuova struttura pubblica sorta sui loro resti; singoli destini residenziali, altri frazionamenti di strutture rimaste in piedi a beneficio di piccole e piccolissime aziende artigianali di servizio, ma molte piccole e alcune grandi unità stanno lì ora abbandonate ad un destino che non si vede, né si intravvede.
Il panorama che si osserva dopo decenni di ripetute crisi lascia sul terreno i segni visibili di una storia industriale fatta più di chiusure, cessioni, liquidazioni e fallimenti che non altro.
Il simbolo più eccellente di questo processo di deindustrializzazione rimane però quella stessa struttura edificata, in fondo solo recentemente, per essere lo strumento di promozione e di innovazione a servizio dell'apparato industriale. 
Oggi il vasto complesso del Tecno Parco, firmato da Aldo Rossi e finanziato dai fondi della Comunità Europea, conclude la sua stentata e breve vita tra le carte dei procedimenti di liquidazione societaria, mentre il corpo principale, affrettatamente ceduto a sede dell'Ente Provincia, assiste accumunato da uno stesso non felice destino, imponente e impotente, alla gravissima crisi finanziaria in cui lo stesso Ente Provincia si dibatte senza uscirne .

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